Introduzione a Derrida - Maurizio Ferraris

Introduzione a Derrida

Maurizio Ferraris

Laterza

Roma-Bari 2003

88-420-7135-8

“Un’esposizione completa, critica e concisa, non dello stile o delle suggestioni di Derrida, ma delle sue teorie.”

Il volume di Maurizio Ferraris rappresenta, in linea con l’approccio proposto dalla collana “Maestri del Novecento”, un’esposizione agile quanto completa del pensiero di Derrida. Questo costituisce, già di per sé, un importante elemento di novità, in quanto non sono poi molti, nel panorama italiano, gli studi di carattere generale tesi a offrire un quadro completo delle teorie del filosofo di Algeri, ponendo l’accento esclusivamente sull’indagine concettuale operata da quest’ultimo piuttosto che sulle sue sollecitazioni stilistiche e metodologiche.

Il libro intende dar conto dell’evolversi storico del pensiero di Derrida e, quindi, prende le mosse dagli anni dell’École Normale Supérieure, quando l’attenzione del filosofo era incentrata principalmente sulla riflessione di Edmund Husserl. La prima opera presa in esame è infatti la tesi di dottorato, risalente al 1954, sul Problema della genesi nella filosofia di Husserl. Il problema fondamentale che mette in moto la riflessione di Derrida è quello scaturito dal confronto, vivacissimo nella Francia dell’epoca, tra lo storicismo tedesco introdotto da Raymond Aron (con l’Introduzione alla filosofia della storia del 1938) e lo strutturalismo, proposto con forza da Claude Lévi-Strauss alla fine degli anni ’40; ovvero il problema del rapporto tra genesi e struttura. Secondo Derrida, che in questo segue la strada indicata da Piaget, Merleau-Ponty e Ricoeur, l’esigenza di integrare la struttura con la genesi era già presente in Husserl “che proprio attraverso l’integrazione tra genesi (cioè “storia”) e struttura (cioè “idea”) aveva salvato i diritti di una filosofia come scienza rigorosa, contro i relativisti dei suoi tempi” (p. 11). Derrida vede cioè in Husserl la profonda esigenza di radicare le strutture formali nel mondo senza però, in tal modo, ridurle esclusivamente alla loro origine empirica.
Mi soffermo con particolare attenzione su questo punto perché qui sono presenti in nuce alcune linee di pensiero che percorreranno la riflessione di Derrida in tutto il suo successivo dipanarsi. Uno dei meriti di Ferraris consiste nell’analisi di alcune opere giovanili, molto spesso trascurate, dove è evidente il sorgere di tematiche che diverranno primarie nella riflessione derridiana più matura.
È emblematica in tal senso l’attenzione che Derrida rivolge a ciò che Husserl aveva definito “apriori materiale”: l’idea secondo la quale “il vero trascendentale non è un apriori situato in un mondo iperuranio, né un aposteriori determinato da come pensano le singole persone; è una struttura deposta nel mondo, una legge del conoscere (epistemologia) che dipende da una conformazione originaria dell’essere (ontologia)” (p. 13). Derrida quindi, seguendo Husserl, contesta l’idea secondo la quale l’apriori possiede un carattere assolutamente formale e necessario, e decostruisce la dicotomia kantiana che vede un’assoluta alterità tra il trascendentale e l’empirico: nella realtà empirica è possibile esperire un elemento formale e necessario, determinarlo a posteriori, senza con ciò renderlo contingente. La decostruzione si configura, in questo senso, come filosofia trascendentale poiché, rinvenendo il necessario nel contingente, nel momento in cui decostruisce l’empirico ne evidenzia l’intima struttura formale, l’apriori appunto: la decostruzione è sempre, al contempo, costruzione. La preoccupazione dello Husserl riletto da Derrida sta tutta nel cercare una nuova via al filosofare che, nell’epoca in cui operava, era minacciato dai due opposti poli dell’empirismo, che appiattiva l’idea sulla storia, e un trascendentalismo che recideva qualsiasi legame del soggetto con la realtà, rischiando, in qualche caso, di concepirlo come assoluto governatore della realtà. Secondo Derrida, che in questo discorso conduce alle dovute conseguenze quanto già intuito da Sartre, il trascendentalismo husserliano, che dall’analisi del dato risale alle sue condizioni di possibilità, sfugge al rischio di concepire un io assoluto, divinizzato, perché è impossibile concepire il soggetto in maniera autonoma rispetto ai contenuti empirici che lo riempiono. In quest’ottica, la realtà empirica non è il contingente che si oppone al trascendentale ma, in ultima istanza, il luogo dove quest’ultimo trova il suo fondamento, le leggi che ne articolano la struttura: “Derrida mescola così la passione husserliana per la filosofia come scienza rigorosa e il pathos heideggeriano per l’esistenza” (p. 18).
Le conseguenze di questa impostazione sono molteplici e tutte di assoluta rilevanza, se poste in relazione con i successivi sviluppi della riflessione del filosofo di Algeri. C’e da rilevare, in primo luogo, come Derrida segua le suggestioni proposte dal filosofo vietnamita, allora molto popolare in Francia, Tran-Duc-Thao, che in un suo noto scritto del 1951, intitolato Fenomenologia e materialismo dialettico, proponeva una visione del soggetto husserliano completamente distante dall’impostazione kantiana e, quindi, non legata all’idea dell’io come pura coscienza bensì a quella dell’io visto, innanzi tutto, come esistenza. È indubbiamente da questa visione che trarranno origine le successive indagini derridiane intorno ai problemi dell’etica e del linguaggio performativo.
In secondo luogo, va evidenziata quella che Ferraris definisce “la questione dei rapporti tra il particolare sensibile, situato in uno spazio e in un tempo determinati, e l’universale concettuale” (ibidem). Questa problematica assumerà un ruolo decisivo nelle speculazioni intorno a ciò che Derrida chiamerà “traccia”, ovvero quel “segno”, riscontrabile nella realtà empirica, che dischiude le porte dell’universale, l’indizio materiale dell’idea.

Dall’iniziale esegesi del pensiero di Husserl, che Derrida interpreta però in un ottica carica di sollecitazioni che finiranno per condurlo lontano dalla fenomenologia, il filosofo franco-algerino si concentra con sempre maggiore attenzione proprio sul concetto di “segno”. In un opera del 1967, La voce e il fenomeno, il problema è esaminato a partire dall’identificazione tra idealità e iterabilità, identificazione resa possibile dall’istituzione di un codice la cui forma originaria è data proprio dalla “traccia scritta”. L’opera del ’67 è ancora, almeno nelle intenzioni, un’indagine sul pensiero di Husserl ma appare evidente, anche da questi brevi cenni, che è un pretesto per teorizzare un proprio passaggio alla speculazione ontologica. Il segno viene infatti visto come il medium tra noi e il mondo, ciò su cui si fonda la nostra esperienza della realtà, non più esclusivamente il tramite necessario alla costituzione dell’idea: “Non c’è alcuna esperienza, sia essa l’auto-intuizione dell’io o l’intuizione di oggetti, che risulti immune dalla mediazione semiotica” (p. 27).
A partire dagli anni Sessanta, Derrida quindi abbandona l’esplicito riferimento alla fenomenologia, analizzando la quale ha potuto asserire l’assoluta impossibilità di operare una riduzione che conduca a un soggetto e a un oggetto puri, non mediati. Una volta costruito un terreno solido, un fondamento sicuro sul quale crescere, il pensiero di Derrida, tra la fine degli anni Sessanta e tutto il decennio successivo, perseguirà un duplice obbiettivo, pienamente in linea con l’idea che il progetto di una purificazione dalle categorie che strutturano la nostra esperienza non è percorribile, e deve quindi cedere il passo a un’indagine trascendentale intorno a quelle stesse strutture, sempre tenendo presente che quest’ultime non hanno nulla in comune con gli schemi, puramente concettuali, di kantiana memoria. Da un lato Derrida si impegna, in opere come La scrittura e la differenza e Della Grammatologia, entrambe del 1967, nella fondazione di un trascendentalismo rinnovato, che possa realmente dar conto delle condizioni del nostro esperire. Dall’altro c’è il tentativo di “decostruire” l’intera storia della metafisica, il tentativo cioè, “condotto attraverso la lettura dei testi della tradizione, di esplicitare le contrapposizioni del discorso filosofico, mettendo in luce le rimozioni su cui si istituiscono, i giudizi di valore che incorporano spesso inavvertitamente o almeno implicitamente, e dunque di rivelare la struttura totale della nostra razionalità, che si manifesta piuttosto in negativo che non in positivo, attraverso delle resistenze invece che in tavole delle categorie” (p. 55). Seguendo queste linee guida, Ferraris indaga puntualmente alcuni testi centrali degli anni Settanta, quali Margini della filosofia, La disseminazione, Posizioni, nei quali il confronto con il passato è serrato, la metafisica è sottoposta alla più incalzante indagine, dalla quale emerge con forza l’origine inconscia della differenza e, di conseguenza, l’impossibilità di uscire dalla metafisica stessa, di strutturare una nuova filosofia assoluta sulle ceneri lasciate dalla decostruzione.

Queste sono le acquisizioni che Derrida si porta dietro negli anni Ottanta. Qui la sua attenzione si concentra però sul presente, operando un cambio di registro a cui è condotto, forse, anche dalla fama planetaria che la sua figura ha raggiunto. Nel terzo capitolo del libro viene quindi analizzata la riflessione etico-politica di Derrida che, attraverso l’analisi del problema morale in Heidegger, tornato d’attualità nel 1987 con la pubblicazione dello studio di Victor Farias Heidegger e il nazismo, la rilettura di Marx inteso come pensatore utopico, nonché l’emergere di tematiche quale quella dell’autobiografismo, strettamente connessa al ripensamento della questione ebraica, prende posizione nei confronti delle tematiche più scottanti dell’attualità.
Proprio la centralità che l’etica viene ad assumere negli scritti di questo periodo sembra suggerire l’idea che “l’intera ricerca di Derrida, sotto l’aspetto di una interrogazione sulla conoscenza e sulla ontologia, avesse avuto, sottotraccia, questo unico interesse fondamentale” (p. 94). Quasi che l’esito ultimo della speculazione derridiana, constatato lo scacco di qualsiasi tentativo di concettualizzazione assoluta, e pensando anche agli scritti più recenti incentrati sul tema del tatto, dell’animalità contrapposta alla spiritualità, sia riscontrabile nell’indagine morale sull’agire produttivo dell’uomo.

Il volume si chiude con due strumenti fondamentali che è necessario ricordare: una rapida carrellata sugli approcci critici che, nel corso degli anni, si sono succeduti intorno al pensiero di Derrida, e un’accuratissima bibliografia che elenca tanto le edizioni originali delle opere del filosofo di Algeri, quanto quelle italiane, nonché gli studi che hanno affrontato il suo pensiero. Due ulteriori punti di forza di un testo che, nella sua brevità, risulta uno strumento fondamentale per chiunque voglia avvicinarsi alla riflessione di Derrida avendo, in primo luogo, una visione globale e storicamente scandita dell’evolversi delle sue teorie.
Andrea Tortoreto, SWIF, giugno 2004

La parabola illuminista di Derrida
di Stefano Cantucci

Se Jacques Derrida sia un filosofo, un critico letterario, un sofista, uno scettico, un prestidigitatore della parola o piuttosto una specie di imbroglione magico, un trickster, è una questione che non divide più gli animi, né suscita più le resistenze e l’irritazione degli ambienti accademici, come ancora accadeva verso la fine degli anni Settanta. A partire dal decennio successivo, insieme alla fama planetaria, è arrivato infatti per Derrida anche l’unanime riconoscimento al rilievo filosofico del suo pensiero, quando non si è giunti addirittura alla canonizzazione della sua figura, assunta oggi nel ristrettissimo novero dei classici contemporanei. Il libro che Maurizio Ferraris gli ha ora dedicato (Introduzione a Derrida, Laterza) è al tempo stesso un prodotto di questo processo e un rovesciamento dei suoi taciti presupposti. Un prodotto, perché la ricostruzione del percorso filosofico di Derrida dagli esordi fino agli esiti più recenti implica la possibilità di leggerlo come un classico e di storicizzarne il cammino. Un rovesciamento, perché nel momento in cui l’operazione viene tentata senza autocompiacimenti e senza manierismi letterari, ma mettendo a fuoco precisamente lo sviluppo della sua filosofia, l’immagine di Derrida si modifica sotto i nostri occhi e il suo pensiero cessa di presentarsi come una superficie porosa, reversibile, negoziabile, rivelandosi, al contrario, come un organismo sorprendentemente compatto, un pensiero con la cui radicalità e il cui rigore non si è ancora cominciato a fare i conti.

La quarta di copertina, lapidaria, definisce molto bene il volume: un’«esposizione completa, critica e concisa, non delle suggestioni o dello stile di Derrida, ma delle sue teorie». Ed essenziali sono anche gli strumenti che Ferraris adopera per assolvere al compito che si è proposto: anzitutto un linguaggio asciutto e chiarissimo, privo di concessioni all’idioletto derridiano; quindi una puntuale contestualizzazione dei suoi lavori nel panorama della filosofia contemporanea, francese e internazionale; infine una semplice ripartizione degli argomenti in tre periodi distinti, dagli studi fenomenologici degli esordi ai lavori sulla scrittura, la traccia e la grammatologia, nel passaggio fra gli anni Sessanta e Settanta, per approdare al «cambio di registro» degli anni Ottanta, polarizzato intorno al problema degli «oggetti sociali».

È probabile che il ritratto di Derrida tratteggiato da Ferraris non piaccia a molti dei suoi ammiratori e che, sottotraccia, il libro rechi con sé proprio il programma inconfessato di difenderlo non tanto dai critici, quanto dagli apologeti. D’altra parte, quando si stilizza un percorso intellettuale ramificato come quello di Derrida, esporlo a una sistematizzazione che richiede qualche forzatura è inevitabile. Quel che però si perde sul piano della dispersione e dell’eloquenza saggistica dei contributi derridiani, viene guadagnato dal lato di una lettura che considera il suo pensiero non come la prima delle «non-filosofie» del postmoderno, pregiudizio largamente diffuso, ma come l’ultima delle grandi filosofie del Novecento. Se Derrida, scrive Ferraris, «prende in parola» la tradizione metafisica e «la porta al limite», evidenziandone le contraddizioni interne, il suo obiettivo non consiste nel decretarne la fine o nel constatarne semplicemente i fallimenti, ma nel rilanciarne la posta in gioco giungendo fino alle estreme conseguenze di un atteggiamento che finisce per chiedere all’esperienza vissuta «lo stesso rigore della scienza».

Un estremismo idealistico, osserva Ferraris, il cui riflesso emblematico sta in quel concetto di «possibilità necessaria» che a Derrida deriva dall’interpretazione di Husserl e che lo accompagna fin da La voce e il fenomeno (1967): se qualcosa è possibile, nella logica come nella realtà, allora bisogna tenerne necessariamente conto, dato che la possibilità non è un accidente della cosa, ma appartiene alla sua essenza ed è ineliminabile dal suo concetto. Dall’assunzione rigorosa di questo principio deriva la tendenza alla «iperbolite» argomentativa che Derrida stesso si è diagnosticato, osserva Ferraris, ma che lungi dal farne semplicemente un sofista, o un giustiziere delle contraddizioni filosofiche, lo mette in dialogo con una tradizione di cui il suo pensiero costituisce un esito estremo e coerente.

In Kant vi sono esempi tipici di «possibilità necessaria»: se ci è data la possibilità di essere morali, allora dobbiamo esserlo; se ci è data la possibilità di sapere, dobbiamo cercare di sapere. «I due piani non si equivalgono, ma tale non è l’avviso di Kant, né di Derrida, che lo porta anzi alle estreme conseguenze» massimizzando gli argomenti classici della filosofia trascendentale. Proprio di questa filosofia Derrida cerca di riformulare le istanze critiche, partendo dallo smascheramento della rimozione che ripetutamente, nel corso della storia, ha investito non l’essere, come voleva Heidegger, ma le condizioni materiali del discorso, i mezzi attraverso i quali si costituisce il senso dell’idealità. Il rimosso, per Derrida, è la scrittura, o meglio ancora l’«archiscrittura», intesa come quel sistema del rinvio da una traccia materiale a un’idea, a un significato, che la metafisica ha sostituito con il sogno della piena presenza del soggetto a se stesso o dell’oggetto a un soggetto.

D’altra parte, l’ossessione della presenza, vera e propria «nevrosi della filosofia» dalle nefaste conseguenze etico-politiche, non può essere autenticamente superata, ma solo tenuta a bada tramite un’opportuna terapia filosofica. L’idea della «decostruzione» come forma di «analisi interminabile» da applicare ai testi della tradizione filosofica si fonda su queste premesse. Ma il fascino del lavoro critico di Derrida, i geniali esercizi di interpretazione con i quali ha smontato interi canoni della filosofia occidentale, ha fatto spesso perdere di vista l’altro principio per lui fondamentale, sul quale Ferraris richiama opportunamente l’attenzione: l’idea che la «decostruzione» possieda anche, sempre, il senso di una «costruzione», e che la terapia non possa «promettere di guarire il male», come scrive Ferraris, ma solo di «renderlo sopportabile» ripensando gli stessi termini della filosofia classica in una forma consapevole delle sue tentazioni nevrotiche e quindi, forse, capace di scongiurare i loro effetti.

I nuclei essenziali del pensiero di Derrida giungono a maturazione, secondo Ferraris, negli scritti che compongono il volume Della grammatologia (1967). Dopo di allora, la sua produzione saggistica si moltiplica esponenzialmente. Il suo stile si fa più colloquiale, aderente al parlato delle conferenze. Gli argomenti riflettono l’esigenza di un continuo «dialogo con il presente», con le sue urgenze filosofiche e politiche, dal quale emergono con crescente distinzione motivi etici rimasti, fino ad allora, sottotraccia. È il momento nel quale Derrida applica i paradossi della «possibilità necessaria» a quelli che Ferraris chiama «oggetti sociali»: istituzioni, leggi, relazioni politiche. Ed è il momento in cui la struttura di rinvio della scrittura, la negazione del feticcio metafisico della presenza e il privilegio di un’ontologia della mediazione cominciano ad articolarsi negli spazi dell’intersoggettività: dal problema della «cosa» si passa a quello del «dono», ovvero dell’ente la cui definizione esige che non si possa fare a meno dell’altro da cui la donazione proviene; dall’idea della verità si passa ai modelli della testimonianza e dell’autobiografia; dal nesso heideggeriano fra morte e autenticità al privilegio dell’esperienza del lutto, cioè di una mediazione fra il sé e la memoria dell’altro che appare, ancora una volta, interminabile.

Agli occhi di Ferraris, l’ultimo Derrida sembra raccogliere tanto dall’attualità, quanto dalla storia del pensiero, occasioni di riflessione che fortificano il senso di una filosofia radicale e rigorosa il cui programma si rivela essere molto vicino a quello di Foucault, quasi che a distanza di anni dalle polemiche che li divisero sia possibile ritrovarli sulla strada di un cammino comune. Quello di un rinnovamento dell’illuminismo che Derrida, coerentemente, concepisce senza l’ideale di una trasparenza ultima, senza l’idea di un totale rischiaramento del sapere. Un illuminismo inteso come compito indefinitamente aperto per la filosofia, e per il quale Derrida continua a lavorare.

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Indice

I. 1952 1967. L’APPRENDISTATO FENOMENOLOGICO. I.1. L’École Normale Supérieure, p. 3 – I.2. Dialettica nella fenomenologia, p. 11 – I.2.1. L’irriducibilità della genesi, p. 11 I.2.2. Il segno e le idee, p. 20 – I.2.3. Il capovolgimento della fenomenologia, p. 26 – I.3. L’argomento trascendentale, p. 33 – I.3.1. Reale, ideale, iterazione, p. 33 I.3.2. Il teorema di Münchhausen, p. 38 I.3.3. La legge di Murphy, p. 42
II. 1967 1980. LA DECOSTRUZIONE DELLA METAFISICA. II.1. La grammatologia come filosofia trascendentale, p. 51 – II.1.1. Il ’68 e l’oltrepassamento della metafisica, p. 51 – II.1.2. La grammatologia, p. 56 II.1.3. Grammatologia e schematismo, p. 62 – II.2. La decostruzione come analisi interminabile, p. 67 – II.2.l. Rimozione, p. 67 II.2.2. Decostruzione, p. 76 – II.3. Cosa resta dopo la decostruzione?, p. 83 – II.3.1. Aporie, antinomie, assoluto, p. 83 II.3.2. Differenza, p. 86
III. 1980 . OGGETTI SOCIALI. III.1. Etica e ontologia, p. 91 – III.1.1. Il cambio di registro, p. 91 – III.1.2. La critica del postmoderno, p. 95 – III.1.3. Heidegger e Marx, p. 98 – III.1.4. La polarità etica/ontologia, p. 104 – III.2. Lutto e autobiografia, p. 111
Cronologia della vita e delle opere, p.119
Storia della critica, p. 139
BIBLIOGRAFIA. I. Repertori bibliografici, p. 151 – II. Opere di Derrída in edizione originale, p. 152 – III. Traduzioní italiane, p. 154 – IV. Studi su Derrida, p. 156 Opere collettive e fascicoli monografici, p. 156 Post strutturalismo, p. 157 Ermeneutica, teoria della letteratura, teoria critica, p. 158 Filosofia analitica, p. 158 Fenomenologia, p. 159 Derrida in Italia, p. 160
L’autore, p. 163

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